Nove volte su dieci la violenza alle donne si consuma all’interno della famiglia e l’aggressore è un uomo con il quale la vittima ha o ha avuto una relazione affettiva. “E’ un comportamento diffuso a tutti i livelli, senza distinzione di fascia sociale, cultura o educazione” ha spiegato la criminologa Laura De Fazio intervenendo nel corso del Consiglio provinciale straordinario.


La violenza, comunque, è sempre una violenza “di genere” dell’uomo sulla donna, e se l’attenzione si concentra molto sulla vittima, come ha sottolineato Carla Raimondi, presidente dell’associazione “Casa delle donne contro la violenza” che in 15 anni di attività ha accolto oltre 2000 donne, “degli autori non si parla mai: sembra sia difficilissimo pensare alla violenza come a un problema di chi la compie e non solo di chi la subisce”.

Un tentativo in questo senso l’ha fatto il sociologo Marco Deriu partendo dal dato che in Italia cento donne all’anno sono uccise da uomini a cui erano state legate e che hanno lasciato: “Nella relazione di coppia sono venute meno molte sicurezze e molti uomini non sono in grado di accettare la libertà femminile”.

Un lavoro sugli uomini è stato avviato anche dall’associazione di accoglienza “Marta e Maria” che si occupa di donne immigrate sfruttate a scopo sessuale, ridotte in schiavitù o soggette a violenze e abusi familiari, come ha raccontato il responsabile, don Domenico Malmusi: “Abbiamo ascoltato anche i clienti delle prostitute, senza giudicarli ma aiutandoli a prendere coscienza di ciò di cui sono responsabili. E alcuni, da colpevoli si sono trasformati in risorse per “salvare” le ragazze”.
Alle donne, spesso giovanissime, sono proposti invece percorsi di inserimento e integrazione sociale: “Attorno a loro costruiamo una rete di sostegno e di amicizia: alle mamme, per esempio, proponiamo dei nonni adottivi che possano sostituire le figure parentali mancanti”.

Le associazioni di volontariato sono da sempre le prime ad assistere le donne che hanno subito violenza. “Siamo donne che parlano ad altre donne – ha spiegato Carla Raimondi – e offriamo loro un luogo e l’occasione di darsi nuovamente un significato, identificandosi non più come vittima ma come protagonista delle proprie scelte”, mentre spesso il rapporto con il servizio pubblico, può indurre le vittime di violenza ad aspettarsi che altri, il poliziotto, il medico, l’assistente sociale, risolvano i loro problemi. “Ma se le donne non capiscono cosa cambiare di sé perché la situazione non si ripeta – ha commentato Renata Bergonzoni, presidente dell’associazione “Gruppo donne e giustizia” – dalla violenza non si esce”.