Il 10% in meno di un tedesco, il 20% di un cittadino del Regno Unito, addirittura il 25% in meno di un lavoratore francese: “In Italia – ha sostenuto il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi in un recente intervento all’università di Torino – gli stipendi sono troppo bassi rispetto alla media europea”. E per rilanciare la crescita – questa la ricetta di Draghi – bisogna aumentare i consumi, ponendo la questione salariale come prioritaria nell’agenda politica.
E in tempi di crisi generale di potere d’acquisto per le famiglie italiane, vale la pena di chiedersi quanti nuclei si collochino addirittura al di sotto della cosiddetta “soglia di povertà”. Da questo punto di vista, è l’Emilia Romagna a far registrare il più basso llivello di povertà relativa, nel panorama nazionale, per ben due anni consecutivi. Il primato è stato registrato nel 2004 e nel 2005, quando l’incidenza di famiglie povere ha segnato rispettivamente il 3,6% e il 2,5%. Numeri, questi, misurati dall’Istat prendendo a riferimento una soglia convenzionale – la cosiddetta linea della povertà – che identifica il valore della spesa per consumi al di sotto del quale una famiglia viene definita povera in termini relativi.
Da una lettura dell’indagine annuale sui consumi – effettuata da Ervet nell’ambito della pubblicazione “L’Emilia-Romagna e le regioni europee nella strategia di Lisbona” – risulta che nel 2005 in Italia sono state classificate come povere le famiglie di due persone con una spesa media mensile uguale o inferiore a 936,58 euro. E dei tre anni presi in esame dall’Istituto italiano di statistica, soltanto nel 2002 la nostra regione si è dovuta accontentare del terzo posto in classifica, quando il pur contenuto 4,5% era leggermente superiore alle performance di Lombardia (3,7%) e Veneto (3,9).
Favorevole alla nostra regione anche la dinamica dell’indicatore: l’incidenza di famiglie sotto la soglia di povertà è passato in Emilia-Romagna dal 4,5% del 2002 al 2,5% nel 2005, segnando un confortante meno 45%. Un ottimo risultato anche rispetto a Marche, Toscana, Friuli-Venezia Giulia, Veneto e Piemonte, aree che appartengono al cluster delle regioni confrontabili in termini di “coesione sociale” in base a questo e ad altri indicatori statistici.
Nel Nord Italia, che vanta una percentuale del 4,5%, mostra un trend migliore solo il Trentino-Alto Adige, segnando un calo del 48,5% seguito dal 26,6 di Friuli-Venezia Giulia.
Passando in rassegna il Centro, meritano una citazione le cifre, rigorosamente in discesa, di Toscana (22,1%) e Lazio (12,9%).
Male invece il Mezzogiorno, da tempo assestato su una media dell’23%. Da notare che nel periodo considerato la media nazionale non mostra significativi segni di miglioramento, passando dall’11% del 2002 all’11,1% del 2005.