Sono più di 5milioni le persone affette da una patologia reumatologica in Italia, di cui più di 3.500 nella sola provincia di Modena, e tutte in cura dagli esperti della Struttura Complessa di Reumatologia del Policlinico di Modena e dai reumatologi che operano negli ambulatori territoriali. Realtà ospedaliera e territoriale, da un anno a questa parte, hanno dato vita alla Rete Reumatologica modenese che, fin dagli albori di quella che sarebbe diventata ben presto una pandemia, si è attivata con tempestività per non fare mancare nessun tipo di assistenza ai pazienti.

 

Quali misure sono state prese a tutela dei pazienti? E come sono stati gestiti i controlli periodici che si sono visti rimandare, per non esporli a maggiore rischio di contagio?

«Durante una pandemia come quella che stiamo fronteggiando, molta dell’attenzione dei sanitari si è concentrata sui pazienti Covid. Tanti dei nostri colleghi reumatologi e specializzandi sono stati chiesti in forze ai reparti di medicina d’urgenza, malattie infettive e pneumologia. Giustamente, vista la situazione contingente e visto che il Tocilizumab, uno dei farmaci che noi reumatologi utilizziamo da tempo è diventato uno dei farmaci fondamentali nel trattamento del Covid e richiedeva anche la messa a servizio della nostra conoscenza in merito. Non dobbiamo però perdere di vista le esigenze di tutti gli altri malati, compresi quelli che hanno una patologia cronica come i nostri pazienti reumatologici», premette Maria Teresa Mascia, reumatologa presso la Struttura Complessa di Reumatologia del Policlinco di Modena e docente presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. «La Rete Reumatologica modenese ha immediatamente redatto un documento con linee guida seguite da tutti i reumatologi del territorio. Fin dal primo giorno dell’emergenza, ci siamo attivati affinché chi si era visto spostare una visita programmata potesse essere comunque seguito. Ci siamo attrezzati, abbiamo fatto chiamate, videochiamate con i nostri mezzi in alcuni casi, per fare visite a distanza. Non abbiamo lasciato solo nessuno. Queste telefonate, si badi bene, non hanno avuto solo il compito importantissimo di tranquillizzare i pazienti, dato che molti di loro sono immunodepressi per i farmaci che assumono, ma anche quello di valutare i referti degli esami di controllo che sono riusciti a fare presso l’Ospedale di Baggiovara, per esempio. Gli esiti li abbiamo inviati sia ai medici di famiglia sia ai nostri pazienti via mail».

 

E chi tra i malati reumatologici ha bisogno di una terapia infusionale in regime di day hospital, per esempio, come è stato seguito?

«Questo è stato uno dei primi problemi discussi dalla Rete Reumatologica modenese. Dopo le opportune valutazioni sui singoli casi dei nostri malati, dopo aver creato un percorso sicuro da far seguire ai pazienti per venire negli ambulatori dotandoli di mascherine, mettendo loro a disposizione il gel idroalcolico per le mani e distanziando le sedie della sala d’attesa in modo che non ci fossero più di 2-3 persone nei corridoi, abbiamo continuato a fare queste terapie ai nostri pazienti. Il triage prevede anche la misurazione della temperatura all’ingresso, sia dei pazienti sia dell’accompagnatore. Alcuni di loro, infatti, hanno bisogno di essere accompagnati. La stanza per il day hospital ora ospita 4 persone, anziché 8, per poter garantire la distanza di sicurezza. Quando possibile, invece, abbiamo sostituito il trattamento endovenoso con uno sottocutaneo di uguale efficacia terapeutica. Tutte le terapie, quindi, sono state fatte regolarmente. Rimane il problema della Scleroderma Unit: il nostro Servizio è Hub regionale per la sclerosi sistemica. I pazienti affetti da questa patologia hanno quadri clinici molto simili a quelli affetti da Covid e presentano già una insufficienza respiratoria importante. È importante valutarli, trattarli e contemporaneamente proteggerli. La riduzione dei posti letto in attività di DH per le terapie infusive a Modena e la contemporanea trasformazione di molti reparti reumatologici regionali in Covid Unit ci ha pertanto costretto a fare delle scelte terapeutiche importanti e ad assumerci la responsabilità di queste scelte».

 

Come hanno reagito i pazienti di fronte a questi cambiamenti?

«I pazienti reumatologici li conosciamo da tempo, si può dire che, in un certo senso, siamo come una grande famiglia. Conosciamo davvero tanto della loro storia personale. Loro hanno capito molto bene quanto abbiamo fatto in tempi rapidi. Posso dire senza incertezze che noi siamo soddisfatti dei risultati raggiunti e lo sono anche loro, tanto che molti di loro hanno scritto mail o lettere alle Associazioni Pazienti per esprimere il loro gradimento sulle azioni che la Rete Reumatologica ha attivato».

 

Come cambierà il futuro della Reumatologia, secondo lei?

«Stiamo lavorando a un progetto: appena messo a punto, lo sottoporremo alla Direzione Sanitaria. Vorremmo che fosse un modello da seguire anche per altre realtà territoriali. Dobbiamo mettere tutti in conto che ci saranno cambiamenti importanti: non torneremo allo status quo, questa pandemia modificherà molto del nostro quotidiano, sia nel modo di fare assistenza sia nelle relazioni personali. La cosiddetta Fase2 di questa emergenza, ci farà iniziare a tornare a una pseudo normalità, certo, ma questo non vuol dire che potremo abbassare la guardia. Questo virus lo conosciamo ancora troppo poco. L’approccio seguito dalla Rete Reumatologica modenese, basato anche su chiamate e videochiamate, potrebbe quindi continuare anche in futuro. Questo contatto mediato con i nostri pazienti avrebbe anche il vantaggio di non dover far fare tanti chilometri ad alcuni di loro per raggiungerci negli ambulatori. Prima dell’emergenza sanitaria li vedevamo regolarmente ogni 3 mesi, ora potremmo spostare gli incontri a 6 mesi di distanza intervallandoli con i controlli via telefono o via videochiamata. Sarebbe un vantaggio anche per gli accompagnatori, in questo modo, non dovrebbero chiedere permessi al lavoro. Certo, chi riterremo che dovrà comunque venire presso i nostri servizi, sarà invitato a farlo. La Scleroderma Unit si sta attrezzando per avere a disposizione una piattaforma regionale che possa mettere in condivisione la documentazione clinica dei pazienti fra gli esperti regionali che trattano questa patologia».

 

Questo modus operandi, a suo avviso, avrà delle ripercussioni nel rapporto medico-paziente?

«All’inizio ero perplessa sull’utilizzo di questi strumenti tecnologici: pensavo che avrebbero reso più difficile il rapporto medico-paziente, ragion per cui non li abbiamo mai usati così tanto, ma così non è stato. Anzi. Mi sono dovuta ricredere. In quanto docente universitaria, poi, abbiamo fatto esami online ai ragazzi, e li abbiamo anche laureati online. Ho capito che serve una sensibilità diversa per usare nel modo più efficace questi utilissimi strumenti, che possono soddisfare anche le esigenze dei pazienti in tempi rapidi. La telefonata o la videochiamata, voglio risottolinearlo, non accorcia il tempo di visita. Il tempo dedicato a ogni paziente è lo stesso di prima. Questo approccio aiuta ad accorciare le distanze, dato che al momento la situazione è quella che conosciamo tutti, e non espone a un maggiore rischio di contagio nessuno. Per ora, meno si muovono le persone e meglio è. Certo, in seguito, anche il contatto fisico dovrà essere ripristinato».

 

Ci sono stati casi di Covid tra chi ha una patologia reumatologica cronica e autoimmune?

«Pensando al rischio maggiore che avrebbe potuto correre il paziente fragile e immunocompromesso a causa di alcune terapie in atto come lo sono alcuni dei nostri pazienti reumatologici, l’eventualità che ci potessero essere molti casi di Covid ci aveva preoccupato parecchio all’inizio dell’emergenza sanitaria. Man mano passavano i giorni, però, ci siamo messi più tranquilli tutti: i pazienti reumatologici contagiati nella nostra realtà modenese si possono contare sulle dita di una mano. Sono davvero pochi. Abbiamo dei pensieri su questo: i meccanismi su cui si basa l’aggressione del Covid, che richiedono una importante risposta immunitaria, probabilmente sui nostri pazienti non si attivano in quanto già immunocompromessi. Stiamo mettendo a punto un progetto di ricerca che partirà in autunno, per controllare se hanno sviluppato anticorpi dati dall’infezione da Covid attraverso i test sierologici e capire così quanti eventualmente sono stati contagiati senza avere sviluppato la malattia. Inoltre, vorremmo anche indagare se il mancato sviluppo nelle forme più gravi del Covid sia stato dovuto proprio alla loro immunocompromissione. Uno dei fattori che li ha protetti è di certo stata la preoccupazione del contagio, perché considerati inizialmente pazienti più fragili di altri».

 

Se la preoccupazione è stato un fattore di protezione, potrebbe di contro avere come conseguenza una riattivazione della malattia?

«È una domanda che è giusto farsi. Sappiamo che lo stress può riattivare la malattia autoimmune e può essere causa di aggravamento della fibromialgia, un’altra fetta importante della casistica reumatologica. Le nostre telefonate periodiche hanno anche il compito di gestire lo stress di tutti questi malati. Se si danno motivazioni scientifiche e razionali ai pazienti, si può aiutare loro a contrastare le situazioni stressogene. La comunicazione corretta aiuta sempre. La nostra attenzione, però, non è solo dalle date conseguenze di un fattore di rischio come lo stress. Stiamo valutando anche le conseguenze future di chi ha contratto il Covid, non solo tra i nostri pazienti, ma tra tutta la popolazione che si è infettata. Noi sappiamo che dopo la SARS del 2002 o dopo l’infezione con altri tipi di Coronavirus c’è stata una maggiore incidenza di casi di artrite reumatoide. Il virus, quindi, potrebbe innescare un maggior numero di malattie reumatologiche. Stiamo attrezzandoci anche per gestire questo aspetto».

 

Un’altra preoccupazione dei malati reumatologici affetti da Lupus, Artrite reumatoide, Sindrome di Sjögren e altri con connettiviti in terapia con l’idrossiclorochina è derivata dal mancato reperimento di questo farmaco. Come ha reagito la Rete Reumatologica modenese di fronte a questo fatto?

«A Modena abbiamo ricevuto pochissime segnalazioni del mancato reperimento nelle farmacie territoriali del farmaco. Per quei casi, abbiamo contattato subito la nostra farmacia del Policlinico, con cui lavoriamo in maniera stretta e in pieno accordo, e da subito ha fatto in modo che i pazienti reumatologici avessero il loro farmaco senza problemi. Seguendo una corsia preferenziale e adottando tutte le misure di sicurezza per ridurre il rischio di contagio».