Una sana relazione tra medico e paziente con tumore in stato avanzato, incentrata su onestà e trasparenza in merito alla prognosi della malattia, è in grado di generare speranza, nella sua accezione più elevata, specialmente se questa relazione è inserita in un contesto di approccio combinato tra cura oncologica standard e cure palliative precoci.

Sembra un paradosso ma è il risultato – rivoluzionario dal punto di vista culturale – a cui sono arrivati due studi di rilievo internazionale condotti all’interno della Struttura complessa di Medicina Oncologica di Area Nord dell’Azienda USL di Modena, diretta dal dottor Fabrizio Artioli. Le due ricerche, pubblicate sulle maggiori riviste scientifiche del settore, sono state eseguite in maniera distinta ma entrambe giungono a conclusioni simili: la buona comunicazione nella “coppia” medico-paziente è imprescindibile, si basa su saldi principi quali verità e fiducia, e può essere in grado di ridurre l’uso di farmaci oncologici nella fase del fine vita.

Speranza – È possibile parlare di speranza quando il famigliare assistito è un paziente oncologico in fase avanzata di malattia? La risposta, sorprendentemente affermativa, l’hanno data 36 caregiver in lutto di pazienti oncologici metastatici seguiti in regime di cure palliative precoci dall’Ambulatorio Terapie di Supporto Medicina Oncologica Area Nord dell’Azienda USL di Modena di cui è responsabile la dottoressa Elena Bandieri, principale firmataria dello studio. Hanno contribuito, tra gli altri, il dottor Artioli, il prof. Carlo Adolfo Porro, Professore Ordinario di Fisiologia e Magnifico Rettore di UNIMORE, il prof. Mario Luppi, Direttore della Cattedra e Struttura Complessa di Ematologia di AOU e UNIMORE, e due tra i massimi esperti al mondo nel campo delle cure palliative: il prof. Eduardo Bruera, oncologo medico e palliativista all’Anderson Cancer Center di Houston, Texas (USA), e la prof.ssa Camilla Zimmermann, dell’Università di Toronto (Canada).

“Percezioni della speranza tra i caregiver in lutto di pazienti oncologici che hanno ricevuto cure palliative precoci: analisi di contenuto e lessicografica”, questo il titolo della ricerca, è stata pubblicata sul prestigioso The Oncologist e si fonda sulle interviste effettuate attraverso questionari a risposta aperta sulla percezione della speranza durante la malattia e dopo la morte del caro assistito.

Le parole di mogli, mariti, figli e genitori dei pazienti sono state analizzate attraverso un approccio linguistico e psicolinguistico: i risultati hanno evidenziato come i caregiver abbiano percepito la speranza principalmente come resilienza, cioè come forza per sopportare le avversità, rafforzandola grazie ai rapporti di fiducia con il team sanitario. Gli interventi di cure palliative precoci sono stati identificati come il principale supporto per la speranza, sia durante la malattia che dopo la morte del proprio caro. Tutti gli intervistati hanno fatto riferimento al tempo di vita dei parenti dopo che erano stati informati che non c’era possibilità di recupero: in questo scenario, l’aspettativa più frequentemente menzionata è stata l’assenza di dolore fisico, che hanno messo in relazione con la possibilità di vivere con serenità fino alla fine della vita. Del resto, l’eradicazione del dolore fisico è premessa fondante del modello di cure palliative precoci, un approccio che mira a intervenire all’inizio della malattia, nel momento stesso in cui insorge il dolore.

“Questo studio – spiega la dottoressa Bandieri, responsabile dell’ambulatorio inserito funzionalmente all’interno della Rete delle Cure Palliative Aziendale diretta dal dottor Paolo Vacondio – contribuisce alla ricerca attuale sulla speranza in oncologia e, contrariamente alle intuizioni in merito, i caregiver hanno riferito di aver sviluppato la speranza e di averla mantenuta, fino alla morte dei loro cari. Il modello di integrazione precoce di cure palliative simultanee con quelle oncologiche rappresenta un modello in grado di offrire grossi vantaggi non solo per i pazienti ma anche per i caregiver. In particolare un’efficace comunicazione tra medici, pazienti e caregiver sugli obiettivi dell’assistenza e sulla qualità della vita che si basano su relazioni di fiducia, può aiutare ad allineare le aspettative e sostenere una speranza realistica”.

 

Sovratrattamento – L’esigenza di un approccio simile a quello descritto nello studio sulla speranza emerge in tutta la sua urgenza nell’altra analisi effettuata in seno all’Oncologia di Area Nord. Lo studio, realizzato dal dottor Fabrizio Artioli, principale firmatario, insieme a Giorgia Razzini (coordinatrice di ricerca clinica), Dania Barbieri (Psicologia ospedaliera) e allo psicoanalista Cesare Secchi, ha analizzato con grande lucidità il rapporto tra medico e paziente: “Dinamiche relazionali nel sovratrattamento dei pazienti con cancro in stato avanzato, dal punto di vista dell’Oncologo”, pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychology nella sezione di Psycho-Oncology, parte dal presupposto di un eccessivo ricorso alle terapie farmacologiche nei confronti di pazienti oncologici metastatici, in particolare nel fine vita, a volte con scarse dimostrazioni di efficacia e con un ricorso tardivo alle cure palliative. L’alternativa al sovratrattamento potrebbe essere, anche in questo studio, individuata in una buona comunicazione – chiara e onesta – tra medico e paziente, che può essere considerata come un processo in grado di dare speranza. Speranza che il dolore fisico diminuisca o sparisca, speranza di restare lucidi o di ricevere la visita di una persona cara, garantire la continuità di cura.

“Agli oncologi – ammette il dottor Artioli nel paper – spesso manca la formazione per una comunicazione efficace, nonostante diversi studi hanno enfatizzato che una comunicazione positiva migliori il benessere del paziente e dello staff curante. In definitiva, noi incoraggiamo con forza che la comunicazione dell’oncologo si sviluppi all’interno di una significativa trasparenza sulla prognosi legata alla malattia, condivida con il paziente le difficili decisioni da prendere, sappia ridurre il potenziale sovratrattamento oncologico e migliori la presa in carico del paziente nel fine vita”.