I Carabinieri della Stazione Bologna San Ruffillo, coordinati dalla Procura della Repubblica di Bologna, hanno notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari a 12 persone (10 italiani e 2 rumeni), collegate ad altra operazione del 2020 che aveva consentito di sgominare un’organizzazione criminale che aveva portato a segno novanta colpi, per un totale di circa 400.000 euro, ai danni di numerosi cittadini, tra cui un parroco bolognese e un artista di un noto gruppo musicale italiano.

Le persone coinvolte nell’indagine odierna, tutte indagate per associazione per delinquere, dovranno rispondere, a vario titolo, anche dei seguenti reati: furto aggravato, continuato e in concorso, corruzione per un atto contrario ai doveri d’uffici, corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio e frode informatica. Oggi, dopo due anni di ulteriori approfondimenti investigativi, i Carabinieri sono riusciti a capire come faceva l’organizzazione criminale ad entrare in possesso dei bancomat che l’istituto di credito spediva ai clienti.

La risposta è stata trovata nell’animo corrotto di tre impiegati che il clan aveva inserito nell’organizzazione criminale. In particolare, qualche anno prima dei colpi, il capo banda aveva creato un profilo Facebook falso, utilizzando le generalità di una donna inesistente, ma facendo l’upload del volto e di altre foto di una persona reale (nel corso delle indagini, i Carabinieri hanno scoperto che le foto ritraevano una meretrice campana). Inoltre, nelle informazioni del profilo Facebook, il capo banda aveva inserito dei dati che collegavano la donna alle dipendenze di un’azienda specializzata nel trasporto internazionale di merci, con sede a Bologna. Il malvivente, avendo a disposizione il profilo Facebook di una donna, aveva iniziato a chiedere l’amicizia virtuale ai dipendenti di un’azienda italiana che si occupa di servizi postali. Alcuni di questi, di fronte alla richiesta di una donna attraente che faceva un lavoro analogo (spedizioni postali), avevano accettato l’amicizia, iniziando a chattare con la stessa di argomenti vari.

A quel punto, dopo aver carpito la fiducia dei tre impiegati, due a Bologna e uno a Pescheria Borromeo (MI), il capo clan aveva inviato sul posto la meretrice corrispondente alla foto del profilo. La donna, 42enne napoletana che è una tra le dodici persone indagate, era stata incaricata dal boss di testare il carattere dei soggetti approfittando dell’amicizia carpita in chat e al fine di capire se fossero stati disponibili a entrare in contatto con l’associazione criminale. Qualora ci fosse stata la disponibilità degli impiegati, la donna diceva loro che gli avrebbe presentato un suo fantomatico cugino che aveva bisogno di lavorare (il cugino non era altro che il capo della banda nonché la stessa persona nascosta dietro la chat che si spacciava per una donna). La “posta” in gioco corrispondeva a 10 euro a bancomat, per un totale di 1.000 bancomat circa quasi tutti i fine settimana, queste erano le disposizioni che il clan aveva impartito a ognuno dei tre impiegati che, così facendo, si erano assicurati introiti mensili di 40.000 euro a testa.

Per un lavoro pulito e silenzioso, i tre soggetti agivano indipendentemente, ma seguendo lo stesso schema che si attuava ogni venerdì pomeriggio, prima della chiusura dello stabilimento nel quale prestavano servizio. In particolare, l’impiegato corrotto, dopo aver rubato i bancomat, li nascondeva in una scatola che lasciava in un punto specifico dei magazzini, preventivamente concordato con il clan. A quel punto, una batteria di ladri che agiva per conto del clan, si avvicinava allo stabilimento e dopo essersi introdotta al suo interno, spesso nelle ore notturne, rubava la scatola e fuggiva indisturbata, senza lasciare segni di scasso, far scattare allarmi o farsi riprendere dalle videocamere che qualcuno manometteva ad hoc per garantire il successo dell’operazione. Gli unici ad accorgersi del problema erano i destinatari dei bancomat che, non vedendosi recapitare le tessere iniziavano a preoccuparsi, poi si tranquillizzavano quando ricevevano la chiamata del “TELEFONISTA”, altro membro del clan che, spacciandosi per un dipendente dell’istituto di credito, induceva l’interlocutore a digitare il PIN sulla tastiera del telefonino. L’attivazione delle schede avveniva per conto di un “PIRATA INFORMATICO” associato al clan, una persona esperta che in passato aveva tentato di hackerare i siti di alcuni organi istituzionali e partiti politici italiani. Il pirata informatico che è uno tra i dodici soggetti indagati, non risponderà alle accuse, perché è deceduto tre mesi fa per un arresto cardiaco che lo ha stroncato all’età di 42 anni. Infine, entrava in scena il “CORRIERE DI PROVINCIA” che prelevava il denaro delle vittime, ignare di tutta l’operazione.